Sembra che
questo Festival sia destinato a lasciare, in qualche modo, il segno. Non voglio
parlare della conduzione (Conti super-professionale
ma freddo e lapidario), né delle vallette (Emma tra solito vittimismo e tanta
cafonesca ignoranza, Arisa incommentabile e la bella
spagnola Rocio dal pianto a comando), né tantomeno aprire la
parentesi comici, ché ancora dobbiamo smaltire le loro battute da
avanspettacolo paesano.
Si vuol qui
parlare delle canzoni. Rispetto ai Festival di Morandi e di Fazio,
i brani sembrano lievemente superiori alla consueta mediocrità e, soprattutto,
piacciono. Piacciono a chi condivide i video su Facebook, piacciono a chi li
canticchia sotto la doccia, piacciono a chi lancia hashtag su Twitter. Sono del
parere che bisogna, dunque, levarsi di dosso il mantello di fastidioso snobismo
che sovente accompagna questi eventi, e provare a fare delle analisi.
Cantautoriato sì,
cantautoriato no? La mia riflessione vuole riguardare i
testi delle canzoni, quelli che in inglese si chiamano lyrics. Credo sia importante
soffermarsi sul linguaggio, anzitutto perché la nostra lingua ha alle spalle
secoli di tradizione e una storia travagliata ma affascinante come poche.
Specchio di questa nostra tradizione è la poesia, ormai estinta ai giorni
nostri, e la musica d'autore. Ma, se essa può senza dubbio essere considerata
un patrimonio nazionale, d'altro canto l'Italia non è mai riuscita a scrollarsi
di dosso la tradizione cantautorale. Non si vuol capire che bisognerebbe cogliere
da quel mondo la volontà di raccontare storie e di raccontarle bene, non
banalmente, e non si capisce perché invece si continuino a copiarne i lati più
noiosi e anacronistici, come se nel 2015 avessimo ancora bisogno di voci
altolocate che prosaicamente raccontano di soldati e prostitute. E questo è il
motivo per cui, a mio parere, il brano di Amara, presentatasi nella sezione
Nuove Proposte quest'anno, non funziona. Non funziona perché ricalca stili
antichi, impensabili in un mondo che corre senza sosta com'è il nostro.
Il vero vincitore? Kekkodeimodà. Esiste però una tendenza totalmente opposta a quella
di cui sopra. Stiamo parlando delle classiche canzoni "sole, cuore,
amore", che sembrano tornate alla ribalta negli ultimissimi anni. Il merito
di questa rinascita, dopo il boom negli anni '90, è sicuramente dovuto a talent
show come "Amici", estremi banalizzatori dell'arte della musica e del canto,
e ad alcuni personaggi che stanno catalizzando la scena. Menzione particolare
merita Francesco Silvestre, alias Kekko
dei Modà. Il nostro uomo non solo è leader della sua band, di cui scrive i
testi, ma scrive anche canzoni per molti altri artisti, tra cui Emma, Alessandra
Amoroso, Bianca Atzei e Annalisa (nb: tranne la Atzei, tutte
provenienti dal grembo defilippiano). Insomma, una sorta di Giuliano Sangiorgi dei Negramaro,
solo senza talento.
Possiamo dire,
senza se e senza ma, che questo è il suo Sanremo perché è autore di ben tre dei
brani in gara: "Libera" di Anna Tatangelo, "Il solo al mondo" di Bianca Atzei e "Una finestra tra le stelle" di Annalisa. Anche se il pezzo
della Tatangelo è stato eliminato e non ha avuto accesso alla finale, sta
riscuotendo già un discreto successo, soprattutto in virtù del fatto che si
tratta di una canzone molto più che orecchiabile. Ma "Libera" è
troppo anche per lei. Troppo infantile, troppo stucchevole, troppo scontata.
Recita il ritornello: "Io sono libera...libera...come una nuvola nel
cielo che si dondola. Unica...unica...come la luce della luna quando illumina".
Anna la interpreta con gioia e fierezza, e chi siamo noi per farle notare che
Kekko le ha rifilato gli scarti del suo cassetto?
Certo non va meglio quando il nostro si
impegna davvero, come nel brano della Atzei, in cui inserisce anche un po' del
suo proverbiale pathos. Innumerevoli i riferimenti metereologici d'ogni sorta,
come al solito, con qualche cliché in
più sull'amore travagliato. Leggiamo: "Eccoti, menomale, ti prego non
andare/So che non serve a niente/Però io ti amo mentre dentro muoio/No, tu non
puoi capire". No, non possiamo capire e preferiamo pensare che si
tratti di uno scherzo.
Il brano di Annalisa sembra migliore solo
in virtù dell'interpretazione della ragazza che, contrariamente alle altre due,
possiede una splendida voce e la sa usare. C'è da dire, però, che Annalisa
sembra aver capito che alla gente piace sentire urlare e infatti si è messa ad
urlare anche lei. Peccato, un altro talento sprecato alla mercé di questo
universo giovanilistico montato ad arte dalla compagnia di Amici per indurre i
giovani ad essere sempre più deboli e ignoranti. Vorrei allontanarmi dalla
tematica linguistica per un attimo e spendere due parole riguardo Annalisa: in
questi giorni il commento più abusato è stato "è bravissima, ma datele un
autore vero!". Ebbene, c'è da dire che Annalisa la canzone di Francesco Silvestre
l'ha voluta fortemente, tanto da aver scelto il nostro Kekko anche come
produttore del suo ultimo disco. Inoltre, la Scarrone ha ben 66 canzoni
depositate alla SIAE, il che significa che, se avesse voluto, avrebbe
potuto portare un brano scritto di suo pugno. E invece ha scelto la via
più facile. Un brutto esempio di incoerenza artistica e paraculismo. Direi che
questo è sufficiente per evitare di far passare una donna di trent'anni,
istruita e intelligente, come una povera vittima delle scelte altrui.
Ignoranza
sanremese. Tornando al discorso, n tutte e tre le canzoni scritte
da Kekko troviamo un grave errore linguistico, ripetuto con ostentata
noncuranza: ovvero l'utilizzo del "te" al posto del "tu".
Vediamo: "sei uscito anche te", "solo se mi baci
te", "solo se mi guardi te". Non si tratta, dunque,
di un caso, di una licenza poetica occasionale. Si tratta di un dialettismo
vero e proprio, usato con convinzione e fatto passare per lingua italiana. Ecco
che i ragazzini canteranno a gran voce questi versi e assorbiranno questo modo
di esprimersi, credendo che sia normale dire "mi manchi te" o
"te che vuoi?". Il "tu", nei casi elencati, è
soggetto, ma viene fatto passare per complemento. Un applauso al milanese
Francesco Silvestre che porta in auge un dialettismo tipico dei vernacoli
dell'Italia centro-settentrionale.
D'altronde,
deve essere un problema di famiglia, quello di disconoscere la propria lingua
madre. Durante il Festival, Emma afferma con convinzione, rivolgendosi a Lara
Fabian: "lo sapevo che apprezzavi,
Lara". Non contenta di aver perso per strada il congiuntivo, nella
letterina finale a Carlo Conti (roba che neanche i bambini delle elementari
alle maestre) cita Montale a sproposito. Avrà letto parte di "Ho sceso,
dandoti il braccio, almeno un milione di scale", su Facebook o Tumblr. O
forse si sarà identificata nella moglie dell'immenso poeta, miope come lei, a
giudicare da come strizzava gli occhi quando leggeva sul gobbo la presentazione
dei brani in gara.
Oltre il bel canto. Volendo parlare, invece, delle
soddisfazioni linguistiche che questo Festival ci ha dato, non si può non
citare il brano scritto da Grazia di Michele e interpretato insieme a Mauro
Coruzzi, cui è dedicato. La Di Michele è riuscita a immergersi nei panni di
Platinette, alter-ego di Coruzzi, e a scrivere una canzone delicata e profonda,
senza apparire patetica e innaturale come Anna Tatangelo ai tempi di "Il
mio amico", per dire. Si parla, più generalmente, di discriminazioni
d'ogni sorta, e cadere nel ridicolo sarebbe stato facile. E invece il verso
"chi sono io per la gente/coscienza iconoclasta volgare e
irriverente/ma questo è solo un corpo il riflesso grossolano" è senza
dubbi il più bello della kermesse, con buona pace di Malika Ayane e del Premio
della Critica che le è stato assegnato dalla Sala Stampa. C'è da dire, però, a
tale proposito, che anche la canzone interpretata da Malika contiene un verso
interessante, che è saltato subito all'orecchio dell'ascoltatore, salvo poi
perdersi in un testo eccessivamente ermetico e ossuto per poter essere goduto
appieno. Il verso è "silenzi per cena", come a dire che queste
due persone che stanno intessendo una relazione, non hanno bisogno di parlare,
sempre, inutilmente, solo per riempire lo spazio, ma riescono a conoscersi
senza fretta e senza affanni, rallegrandosi anche della quiete.
L'altro verso-tormentone di questo
Festival è "smettila di smettere" contenuto nel bel brano di
Marco Masini, incomprensibilmente non arrivato neanche sul podio, intitolato
"Che giorno è". Un verso che, preso nella sua singolarità, appare
forse insensato e un po' comico ma, se visto nell'interezza della canzone,
acquisisce un senso ben preciso come figura etimologica che vuol ribadire il
concetto di vivere liberamente e senza piani o congetture.
Il resto di
questo Sanremo, escludendo qualche apertura sociale nella canzone di Grignani,
la malinconia di Irene Grandi e la demenzialità di Biggio e Mandelli, è
costituito dalla tematica sempreverde per eccellenza, come avevamo già avuto
modo di dire precedentemente parlando di Kekko dei Modà, ossia l'amore. Nella
sua accezione più leggera e stereotipata, tanto da uscirne in veste quasi
caricaturale. Perché è inutile, l’apodittica verità è sempre quella che
Sanremo è un programma “nazional-popolare” e, come tale, si deve attenere ad
una legge non scritta di inconsistenza e facile digeribilità. Che ci faranno
passare per “normalità”.
Ma è possibile che leggerezza debba per
forza voler dire ignoranza?
(17/02/15)
Tweet
Nessun commento:
Posta un commento