12/07/16

RED HOT CHILI PEPPERS - The Getaway



"[...]È tutto un'illusione: il futuro ci inganna da lontano, non siamo più quel che ricordiamo, né osiamo pensare a ciò che siamo." (George Byron, Strofe per musica)




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(2016, Warner Bros./Alt-rock, pop-rock)

Una storia particolare, quella dei Red Hot Chili Peppers. In giro da più di trent'anni (ebbene sì), nati in un'epoca di cambiamenti, tra i primi fautori di un crossover sanguigno tra funk, hip-hop, punk, rock e melodia, i Peperoncini hanno attraversato numerose fasi durante la loro carriera,
dai primi due acerbi e irriverenti bozzetti passando per l'ottimo "The Uplift Mofo Party Plan" (pezzi come "Fight Like A Brave", "Me And My Friends" e "Special Secret Song Inside" non si dimenticano facilmente), la morte per overdose di eroina del chitarrista Hillel Slovak e conseguente dipartita del batterista Jack Irons. Dalle ceneri di quello che furono gli RHCP dei primi anni nasceranno i Peperoncini così come li abbiamo conosciuti: Chad Smith alla batteria e un allora diciottenne John Frusciante alla chitarra. Da lì in poi è storia: con "Mother's Milk" i nostri riescono nell'impresa di rendere più appetibile il loro sound, consolidandolo e perfezionandolo ulteriormente nel 1991 con il capolavoro "Blood Sugar Sex Magik", contenente alcuni dei loro classici di sempre ("Under The Bridge", "Suck My Kiss", "Sir Psycho Sexy", "Give It Away"). 

Ma, proprio all'apice della gloria, con la band impegnata in un tour mondiale di grande successo, il giovanissimo Frusciante crolla: tra il peso della fama e quello dell'eroina, è a un passo dal ricadere nel medesimo baratro in cui era precipitato il suo idolo e predecessore Hillel Slovak. Abbandona dunque la band, sostituito da Dave Navarro per un solo disco, "OHM", l'album alieno della loro discografia - comunque bello, saturo, graffiante - per poi tornare, disintossicato, a godersi il successo del celebre "Californication", vero punto cardine per i Red Hot che verranno: più soft, più melodici, in qualche modo molto diversi. Ma, se il successo di "Californication" è stato da sempre compreso e legittimato, i fan non hanno mai perdonato agli RHCP "By The Way" e "Stadium Arcadium", tantomeno il poppissimo "I'm With You", e capirne il motivo risulta quantomeno arduo.

Nel 2016 i Red Hot hanno più o meno 54 anni l'uno (se escludiamo il trentaseienne Josh), le goliardate di gioventù se le sono, giustamente, lasciate alle spalle e hanno cambiato pelle. Se non l'avessero fatto, si sarebbero trasformati nella copia sbiadita di ciò che furono, e non c'è cosa più triste per una rock band. Con "The Getaway" e qualche piccolo passo falso alle spalle, i Peperoncini hanno però deciso di rigirare le carte in tavola e di creare un melting pot che assimila le peculiarità di quanto da loro creato nell'arco della carriera. Si tratta, infatti, di un disco molto meno accessibile rispetto agli ultimi tre, che cresce costantemente con gli ascolti, che fatica a diventare familiare se ascoltato tutto d'un fiato, ma che può senza dubbio vantare ottimi pezzi. 

Una piccola rivoluzione, a ben vedere. Non è un caso che, dopo venticinque anni di produzione affidata a Rick Rubin, in "The Getaway" abbiano preferito affidarsi alla regia meno cristallina di Danger Mouse. Il risultato è abbastanza variegato ma comunque compatto: vi si trova la ballata dolciastra "The Longest Wave", o il retrogusto à-la Daft Punk di "Go Robot", e poi il pianoforte, introdotto già nel precedente disco, che qui riesce a trovare il suo spazio senza risultare mellifluo. Basti ascoltare la conclusiva "Dreams Of A Samurai", che oltretutto rimanda a qualche sonorità presente in "OHM", vuoi per l'inaspettato dolore che ne trapela, vuoi per la poderosa linea di basso che si stende, carica di personalità ma senza strafare, sulla canzone, vuoi per i cori, vuoi per le sonorità sature, vuoi per la chitarra di Josh, che finalmente inizia a farsi strada. Il testo, poi, si profila come una narrazione intimista, in cui Kiedis ci immerge nel suo affanno, nella rincorsa verso un mondo che non sente più suo, che non gli appartiene più. In ogni parola si percepiscono lo straniamento, e i ricordi scoloriti, e i tentativi di forgiare un futuro su speranze troppo fragili. Oppure, "The Hunter", in cui è Josh a suonare il basso, mentre al piano troviamo proprio Flea, frattanto che Kiedis tratteggia con lievità un dipinto sul ciclo della vita e l'angoscia di invecchiare, tematica che - si capisce - torna più volte nel corso del disco. E, ancora, "Sick Love", che non avrebbe sfigurato in "BTW", ma il fatto che vi sia Elton John ad accompagnarli al pianoforte impreziosisce quello che è uno dei brani più orecchiabili, senza dubbio il più classico.




 Tra gli aspetti più positivi di "The Getaway" c'è il fatto che i californiani stiano ricominciando a ragionare come una band: lasciata nel passato la tensione tra il pop di Kiedis e la sperimentazione di Frusciante, che li aveva portati comunque su lidi interessanti in certi momenti di "Stadium Arcadium", ora sembra che ogni componente si stia riappropriando del proprio spazio, fatta eccezione per Chad Smith, il cui drumming è qui decisamente sottotono. Perché, in fondo, i Red Hot non sono mai stati una di quelle band di cui si conosce e riconosce un solo leader. Anche il giovane chitarrista sembra qua più presente, più divertito, sebbene ancora in cerca di una vera e propria strada da seguire. Kiedis è ormai fermo sul suo classico timbro vocale monocromatico, ma almeno ci prova a uscirne, in più stavolta lo si può perdonare perché sembra aver ritrovato la sua facondia e infatti testi così ispirati e così sinceri era tanto che non si ascoltavano nelle canzoni del gruppo (non ha perso però il gusto per il nonsense). Un esempio? In "Feasting On The Flowers" torna a masticare le parole in testi che sanno di scioglilingua, in un ricordo delicato verso un amico perduto. La canzone sembra dunque fare riferimento a Hillel Slovak e, come ogni pezzo che i Peperoncini hanno dedicato all'amico tragicamente scomparso, da "Knock Me Down" a "My Lovely Man", si staglia per bellezza e intensità. Anche qua ottimo lavoro di Josh che crea un'atmosfera catchy nonostante la mestizia delle parole. E se tutto sembra troppo soft, ci pensano "Detroit" e "This Ticonderoga", i due pezzi più tirati del disco, a riassestare gli equilibri.

Chiaramente non stiamo parlando di un disco ai livelli di "Mother's Milk", "One Hot Minute" o "Blood Sugar Sex Magik", ma neanche di un lavoro di seconda fila. "The Getaway" è un buon album che, oltre al solito instant-classic che i californiani regalano ad ogni uscita (in questo caso "Dark Necessities", novella "Can't Stop"), offre qualcosa di sostanzioso da ascoltare. Decisamente meno ampolloso e dicotomico di "Stadium Arcadium", meno classico ed elegante di "By The Way", più morbido di "One Hot Minute", "The Getaway" riesce a conquistarsi un posto più che dignitoso nella discografia dei californiani.




(09/07/2016)



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