09/08/17

LORDE - Melodrama



"Come d'una droga formidabile, l'essere umano gode infatti del privilegio di saper trovare un nuovo e sottile piacere persino nel dolore, nella catastrofe e nella fatalità" (G.Orwell, 1984)



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(2017, Republic Records./Pop)


Quando si parla di Lorde non si può non pensare all'influenza che questa giovanissima artista ha avuto sul pop contemporaneo. Il suo album di debutto, "Pure Heroine", uscito a settembre 2013, quando aveva solo 16 anni, continua a suonare con la stessa freschezza del primo giorno e a macinare consensi importanti.
Qualche esempio: Bruce Springsteen suonò a sorpresa una cover di "Royals" durante il suo High Hopes Tour, Dave Grohl si congratulò con lei, David Bowie disse che nelle sue canzoni sentiva "il futuro della musica" (e il Duca Bianco aveva l'occhio lungo per i talenti emergenti, vedi Placebo e Arcade Fire), Katy Perry le offrì di aprire il suo "Prismatic World Tour", ricevendo però un netto rifiuto dalla stessa!

C'è poco da aggiungere a tutto questo. Lorde è semplicemente la cifra stilistica esatta del pop dei nostri tempi. Apprende e fa propria la lezione di Lana del Rey, seppur con qualche semplificazione di troppo, guarda timidamente all'elettronica glitchosa di Grimes e a quella degli anni 80 ma senza sbilanciarsi, e racconta una gioventù più pura e meno modaiola di quella di Charli XCX. 



La peculiarità più evidente di Lorde è il suo riuscire a camminare sempre sulla sottile linea che separa il pop dall'indie. Anche il suo ultimo lavoro, "Melodrama", segue questa stessa scia, ma ha un piglio più vario e deciso rispetto al suo primo album che, per quanto seminale, rimaneva comunque un po' monotono nelle sonorità. In "Melodrama" ogni brano è riconoscibile sin dalle prime note, risultando quindi indispensabile nell'architettura del disco; i suoni si sono fatti meno essenziali, più pieni e umidi, merito certamente anche dei produttori che hanno affiancato la giovane neozelandese: Jack Antonoff in primo luogo, membro dei Fun e vicino ad altri artisti pop come Taylor Swift, Jean-Benoît Dunckel, noto per essere uno dei membri del duo francese AIR, Frank Dudes, già al lavoro con The Weeknd e Rihanna, e altri ancora. 

In compenso, le canzoni sono tutte scritte da Lorde che dimostra ancora una volta un afflato compositivo fresco e giovanile, ma non banale. Sorprende il singolo apripista, "Green Light" che, se da una parte richiama la Lorde che fu partendo in sordina con l'accompagnamento minimalista di un pianoforte, dall'altra confonde le acque esplodendo in un ritornello dancereccio e mettendo immediatamente a nudo il bipolarismo del disco. Qua e là gli echi di Lana del Rey, soprattutto nella civetteria di "Homemade Dynamite" (che invero talvolta fa pericolosamente pensare anche ad Halsey) e nella sontuosità di "Sober II (Melodrama)". Gli umori hip hop sono qua meno presenti rispetto a "Pure Heroine", ma è possibile ritrovarli di tanto in tanto ("Hard Feelings/Loveless)", ben incastrati tra ricami post-dub, inserti rumoristici e il suo solito modo non convenzionale di adoperare i cori ("Perfect Places"). Impossibile, poi, non rimanere colpiti dalla build-up di "Sober", capace di muoversi tanto tra i suoni dell'ottone quanto tra l'elettropop più febbricitante con la medesima sfacciataggine, e la freschezza di "The Louvre", forse il brano più emblematico del disco.




 Due le ballate: da una parte "Liability", che richiama alla mente un qualche outtake della primissima Marina And The Diamonds, dall'altra la più interessante "Writer In The Dark", in cui Lorde dimostra appieno di aver raggiunto anche una certa maturità vocale: proprio in questo pezzo sono messi in evidenza tutti i chiaro-scuri della sua voce da contralto, talmente duttile da raggiungere risultati sublimi anche sulle note più alte, ispirandosi - con ogni probabilità - a Kate Bush. Sin da "Pure Heroine", Lorde è sempre riuscita a realizzare affreschi generazionali originali, diversi da quelli proposti dalle teen dive americane. In "Pure Heroine" si adagiava su sonorità composite per raccontare un'adolescenza giocosa ma discreta, vissuta in cittadine periferiche, ben lontane dalle luci della fama, ma il suo debutto era anche una critica alla cultura pop contemporanea. Nel sophomore "Melodrama", l'artista neozelandese appare più disillusa, ma anche più consapevole delle proprie capacità. 

Con delicatezza, ironia e qualche rimpianto, Lorde delinea un racconto disincantato delle prime difficoltà che diventare adulti porta con sé, ma anche di una generazione che ha perso i propri eroi e punti di riferimento e che sempre più si abbandona a piccole intemperanze, a una romantica lascivia, alla speranza di trovare dei "perfect places" e all'umorismo ché, in fondo, tutta la vita è solo un "fuckin' melodrama".




(08/08/17)





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